«Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste. Le parole sono importanti». Ho riguardato di recente la famosa scena del film di Nanni Moretti, “Palombella rossa”, del 1989, mentre stavo preparando l’intervento per la presentazione del libro di Franca Chiaromonte e Fulvia Bandoli “Al lavoro e alla lotta. Le parole del PCI”, uscito di recente per i tipi di Harpo. Quello che dice Moretti è proprio vero.
Nella prefazione di questo glossario (arricchito da interessanti interviste) sul lessico dei comunisti italiani, sul senso delle sue parole chiave e sul loro uso nella pratica quotidiana del partito, si legge che quelle parole appartenevano a un discorso politico radicalmente diverso da quello attuale, un discorso che non si poteva postare in un tweet.
Ma com’era allora e come è oggi il linguaggio della politica? Letture interessanti sul tema non mancano. Subito dopo la guerra (suggerisce ad esempio Maria Vittoria Dell’Anna in “Lingua Italiana e politica”, Carocci) grandi leader come De Gasperi e Togliatti hanno dato un esempio di eloquenza antiretorica e saldamente argomentativa, che con il tempo ha lasciato il posto all’involuzione del politichese (oscuro, involuto, ampolloso).
Poi le novità della seconda repubblica, quando la politica evolve verso il leaderismo e la personalizzazione, la spettacolarizzazione. Ma anche verso l’estrema semplificazione. Fino all’ingresso prepotente della nuove tecniche di comunicazione, del web e dei social. I tweet, appunto. Fanno il loro ingresso in politica termini come storytelling, narrazione, affabulazione, gli “emologismi”, parole icona, elementari, infantili, povere, autoreferenziali, staccate dalla realtà. Le emozioni si sostituiscono alle idee, si banalizza la complessità. (v. Giuseppe Antonelli, “Volgare eloquenza”, Laterza)
Ricordo Antonio Gramsci: “Le parole si adagiano nella realtà ideologica dei tempi, si plasmano e si trasformano col mutarsi dei (cattivi) costumi degli uomini”
Berlinguer: parole e discorso
“Che cosa può fare un dirigente politico? Parla, scrive, esorta…”, diceva Berlinguer. Secondo gli studiosi, “coerentemente con la tradizione linguistico-didascalica di matrice marxista”, il linguaggio di Enrico Berlinguer era “ordinato e disadorno, dominato dall’uso della forma impersonale, con marcata assenza di toni interattivi ed emozionali verso l’uditorio, al quale il segretario del PCI espone le proprie tesi simmetricamente disposte in una controllata argomentazione a catena di tipo tecnico-scientifico secondo la successione causa-effetto”. (Paola Desideri, dalla voce “Linguaggio” della Enciclopedia dell’Italiano 2011).
Si sentiva, dietro questo periodare sobrio e pulito, una preparazione puntigliosa, una riflessione documentata, una attitudine allo studio approfondito, la ricerca meditata di espressioni appropriate, pertinenti, comprensibili. Berlinguer aveva in qualche modo costruito e messo a frutto una rara combinazione di concezione razionalista della politica e di carisma. Riusciva, dicono sempre i suoi analisti, in quello che i latini definivano “fidem facere et animos impellere”, cioè convincere razionalmente e persuadere emotivamente.
Anche il suo lessico era assai definito e peculiare. Chi lo ha analizzato ha notato che il vocabolario berlingueriano abbondava “di parole e sintagmi chiave come analisi, solidarietà, rigore morale, intelligenza delle cose, senso dello Stato, espressioni che indirizzano appunto all’osservazione obiettiva dei fatti e dei problemi, la cui soluzione impegna il politico non in vista di scopi individuali, ma per contribuire alla «costruzione di un nuovo assetto del mondo» (Desideri).
Alessandro Leogrande (con altre parole rispetto a Moretti ma con analoga intuizione, a me pare) ha collegato nel suo ultimo editoriale su Gli asini, “Il ritorno di Belluscone”, il tema del linguaggio e della comunicazione politica con quello della cultura politica: “Siamo ormai arrivati – ha scritto – al giro di boa dell’estinzione delle culture politiche e post-politiche che avevano fatto la prima e la seconda repubblica. Questo vuoto è stato in parte riempito (con esiti nefasti) dal berlusconismo, in parte da una vera e propria marmellata della comunicazione politica quotidiana da cui è stata bandita ogni forma di pensiero a lungo raggio”. Già, i “pensieri lunghi”…
Ci sono alcune parole, ricordate e descritte nel libro di Chiaromonte e Bandoli, che a mio parere potrebbero e dovrebbero ancora camminare nel mondo della politica, oltre ovviamente alle tante altre che non hanno più la forza per farlo. Tra le prime scelgo austerità (la grande incompresa), battaglia delle idee, concezione del mondo, discorso politico, giustizia sociale, riforma (nell’accezione gramsciana di riforma intellettuale e morale).
Mi piacerebbe aggiungere all’elenco: partecipazione (contrapposta a condivisione), dibattito, visione.
Semplice nostalgia? Ha scritto di recente l’amico Antonio Floridia: “In genere, nel lessico politico odierno, dare del “nostalgico” a qualcuno significa biasimare il suo sguardo rivolto all’indietro, il suo attardarsi nel rimpianto di un tempo passato, il suo distacco dalle novità del presente. Io vorrei qui, al contrario, rivendicare il valore politico, e il valore positivo, della nostalgia. La politica, la politica di chi si riconosce in un ideale di giustizia e democrazia, non può vivere spezzando il filo della memoria storica…Oggi – da almeno un quarto di secolo – la storia ha imbrogliato e rimescolato le proprie carte: è difficile cogliere in quanto accade un “senso” univoco, una “direzione”…Ma se non c’è più un “senso” della storia, non per questo è venuto meno il bisogno di “dare un senso” a ciò che accade. Ed è qui che scatta la “nostalgia”, positivamente intesa: la nostalgia diviene un sentimento negativo, un senso di ripiegamento inerte sul passato, solo se si presuppone che il corso della storia contenga in sé il “progresso”. Ma se così non è, e sappiamo oramai che così non è, la nostalgia può essere intesa come memoria di momenti migliori, consapevolezza che un’altra politica è stata possibile, e che potrebbe essere ancora possibile. Se non c’è più un flusso univoco del cambiamento storico, che lascia dietro di sé solo macerie e rovine, allora anche la “nostalgia” può assumere un senso diverso: come memoria dei momenti “alti” del proprio passato (non poi così remoto, in fondo), come “modello” positivo a cui ispirarsi nelle mutate condizioni del presente…? Ciò che oggi il nostro tempo ci impone con una sorta di imperativo morale è forse proprio questo, prima di tutto il resto, ossia ridare dignità alla politica.
O in altre parole, come ha scritto Livia Turco sul Manifesto: “Le parole del Glossario e quelle delle interviste mi confermano che la «mummia Pci» ci lascia una vivente lezione, non solo attuale, ma necessaria per far rinascere la democrazia e ridare senso alla sinistra: la necessità di una moderna politica popolare”.
Susanna Cressati