Futurologia, ovvero “i motivi della nostra esistenza”

Era il 1982, l’anno di Blade Runner. Forse, quando al 22° Congresso nazionale della FGCI, al Palalido di Milano, Enrico Berlinguer invitò i giovani a organizzare un “congresso di futurologia” qualcuno pensò che il segretario del Pci si fosse ispirato a Stanisław Lem, autore di un libro con lo stesso titolo. Del resto questo scrittore polacco di fantascienza, medico, scienziato, narratore, era o non era stato autore di testi caratterizzati da una forte critica al sistema capitalista?

Fatto sta che un anno e mezzo dopo, quando nell’intervista pubblicata dall’Unità con il titolo “Orwell sbagliava, il computer apre nuove frontiere” Berlinguer tirò le orecchie alla FGCI, rammaricandosi fermamente che quell’invito non fosse stato raccolto (“Ritengo che sia stato un errore non esserci ancora arrivati”) Ferdinando Adornato tentò di scaricare la responsabilità sul segretario: “Forse hai scelto una parola sbagliata: futurologia fa pensare più alla fantascienza che a una concreta ‘programmazione’ del futuro…”. (Austerità, compromesso storico, questione morale, futurologia: quante parole sbagliate sceglieva Berlinguer).

In realtà, lanciando l’idea, Berlinguer aveva spiegato con una certa chiarezza (e lo ripetè ad Adornato) che non stava invitando i giovani comunisti ad avventurarsi sul terreno letterario o su quello della predizione, non aveva chiesto loro di trasformarsi in astrologi o indovini. Piuttosto li aveva esortati a misurarsi, su basi scientifiche, con quelle che chiamava “le contraddizioni nuove del tempo nostro”: “Far conoscere a tutti che cosa comporta la continuazione della corsa al riarmo, quali sarebbero le conseguenze di una guerra combattuta con le armi atomiche e nucleari. E diffondere i risultati degli studi più recenti sui problemi del rapporto tra risorse e popolazione, tra sviluppo e ambiente e così via. Non è molto – ricordava Berlinguer – che scienziati, istituzioni e anche esponenti politici hanno cominciato a studiare questi temi tipici del nostro tempo e che domineranno i prossimi due decenni. Si è cominciato, praticamente, a parlarne all’inizio degli anni ’70”. Forse si riferiva, ad esempio, al Rapporto sui limiti dello sviluppo, commissionato al MIT dal Club di Roma nel 1972.

“Prima – proseguiva Berlinguer – e ancora per tutti gli anni ’60, imperava il vacuo ottimismo del progresso incessante, del benessere che si sarebbe via via diffuso a tutta la popolazione e a tutte le nazioni. Ma negli ultimi anni, nel corso dei quali la realtà ha richiamato la necessità di una visione più lucida del futuro del mondo, un notevole patrimonio di studi si è già accumulato. Esso non è però ancora sufficientemente conosciuto e discusso da grandi masse”. Da qui l’idea di un congresso che affrontasse varie discipline (scienze fisiche, chimiche, biologiche, antropologiche, demografiche, militari, economiche, sociali, informatiche, mediche, ecc.) e le cui informazioni, valutazioni e proposte fossero offerte alla conoscenza e alla discussione tra i giovani.

Guardare al futuro con pensieri lunghi era dunque per Berlinguer un imperativo della modernità. Con il consueto ricorso alle radici ideali lo definiva anche, forse con una qualche ironia che meritava il punto esclamativo, “un modo scientifico di rifarsi ancora all’’idea del “sol dell’avvenir”!”. Ma una utopia attuale. E’ quasi paradossale che questo riferimento all’antica bandiera del socialismo, colorata di utopismo e millenarismo, venga in mente a Berlinguer proprio in una intervista dedicata esclusivamente alla modernità, alla nuove tecnologie. Lo scienziato Carlo Bernardini aveva ammonito : “E’ finito il tempo dei pensieri lunghi”, e aveva ragione. Ma Bernardini era uno scienziato, ancorchè politicamente schierato. Berlinguer faceva un altro mestiere.

Susanna Cressati

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